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filosofo79

~ io, me e l'Altro: dove il silenzio è talvolta rotto da Alberto Trentin

filosofo79

Archivi Mensili: aprile 2014

PONÀRO

29 martedì Apr 2014

Posted by filosofo79 in Poïesis

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PONARO

No gò altro, stavolta

che na longa strachìsia

dei boni costumi

dee voxi  da vece comàri

che tuto tamisa

e no assa sta testa

far paxe co a pansa.

Podesse inpiocàrme

na s-ciànta, debòto,

inte el vecio ponaro

e asàr che sto mondo

cascasse pì tardi

magari deà dal portèo

che scònde a gombina

al sùsio che tuto scombina.

 

Epùr, regina dei mari,

pol darse che gnanca pì tardi

gnente se fasa darente

e tuto sto altro voxàr

no sia che un modo de scondar

soto l’ombra dee stèé

un omo desbatezà da chei ciari

che tì te assi che i vaga

co tì te me vardi

e mi parlo de scapinèé:

so de essar finìo al cào

del me saverte ciamàr.

Go a grassia de chi smete de còrar

pa ‘ndàr gatagnào.

 

It.

Non ho altro, stavolta / Che una lunga stanchezza / dei buoni costumi, / delle voci da vecchie comari / che filtrano tutto  / e non lasciano che questa testa / faccia pace con la pancia. / Potessi ripararmi, / un poco, fra poco, / dentro al vecchio pollaio / e lasciare che questo mondo / caschi più tardi / magari al di là del portello / che nasconde la gombina / al freddo vento che tutto sconvolge. / Eppure, regina dei mari, / può darsi che nemmeno più tardi / niente si faccia vicino / e tutto quest’altro vociare / non sia che un modo di nascondere / sotto l’ombra delle stelle / un uomo meravigliato da quelle luci / che tu lasci che vadano / quando mi guardi / ed io parlo scalzo: / so di essere finito al lembo / del mio saperti chiamare. / Ho la grazia di chi smette di correre / per andare a gattoni.

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Caffè

23 mercoledì Apr 2014

Posted by filosofo79 in Dizionario etimologico del disamore

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Tag

aroma, Beccaria, caffè, Peppina, Riccardo Del Turco, Verri

Caffè [caf-fè] s.m. inv.

 

You used to smile at me,
Give me something I need,
Bring me coffee or tea,
And call me pretty little bee

Can – Bring me coffee or tea

El cafè l’è bon con tre S: sentà scotando e scrocando

Proverbio veneto

imagesCA9GT84D Mi ricordo di una ragazza spagnola che conobbi quando ero in una sorta di collegio a Mosca. Mi disse: voi italiani siete tutti così, quando c’è da parlare per prendere una decisione dite: beviamoci un caffè.

Ed è vero. Il caffè per noi è un rito, la moka è il suo baluardo ed “espresso” è una delle parole italiane più conosciute e diffuse, e questo ancora prima che il piacione di Clooney gioggioneggiasse in specula et in aenigmate.

Non so se siamo ancora un popolo di poeti, santi e navigatori ma certo siamo tutti caffettoni. Attorno a questa meravigliosa bevanda abbiamo costruito una civiltà, fatta di immagini, marchi (brand, come si dice oggidì), canzoni, filastrocche, ricordi, tradizioni e, ahimè!. Vassoi in silver plate presi coi punti del Famila. E questo nonostante l’infanzia di tutti noi sia stata ferocemente traviata da un qualche filone eversivo, che cercava di convincerci che il caffè fosse quello preparato dalla Peppina:

La Peppina fa il caffè

fa il caffè con la cioccolata

poi ci mette la marmellata

mezzo chilo di cipolle

quattro o cinque caramelle

sette ali di farfalle

e poi dice: “Che caffè!!!”

Per il qual scempio, tuttavia, è stata fatta giustizia, se è vero che:

La peppina fa il caffè

Fa il caffè di cioccolata

La peppina è ammalata

È ammalato di dolor

La peppina fa l’amor

Fa l’amor col capitano

La peppina va in areoplano

L’areoplano cade giù

La peppina non c’è più.

E pace all’anima sua.

Il caffè è cultura. Ha un potere che nessuna altra bevanda ha in egual modo; ha creato ed aperto uno spazio sociale: il caffè, anche se poi la nostra mitocondriale anglofilia ha preferito lasciare che si diffondesse l’asettico e lamieroso termine bar.

Eppure all’inizio, alla diffusione nell’intera Europa del caffè in quanto bevanda si affiancava la creazione del caffè in quanto spazio pubblico, in cui sostare a bere e chiacchiarare; dapprima, nell’Inghilterra del XVII secolo, furono le cosiddette coffeehouse; poi l’abitudine venne presto esportata in Germania, in Francia, in Italia, negli Stati Uniti; qui, per inciso, la prima coffe house venne aperta nel 1689 a Boston, nel cui porto e quasi un secolo dopo prenderà atto il famoso Boston Tea Party, protesta che darà avvio alla rivoluzione americana: forse la caffeina un po’ nervosetti rende, no?

Rivista Il CaffèE qui, in questi nuovi spazi sociali, luoghi d’incontro e di scontro, oltre all’inebriante aroma della bevanda, si spargevano nell’aria i sapori suadenti ed eccitanti delle nuove idee liberali. Il caso italiano è sintomatico: dal 1764, dopo che Milano era passata dal dominio spagnolo al controllo austriaco, un gruppo di letterati iniziò a dare alle stampe una rivista intitolata: Il caffè, ossia brevi e vari discorsi distribuiti in fogli periodici. La rivista usciva a Brescia, al tempo sotto la giurisdizione della liberale Repubblica di Venezia, allora ancora Serenissima; tra i membri vanno ricordati i fratelli Verri, Cesare Beccaria, Pietro Secchi, Paolo Frisi, Giuseppe Visconti, Sebastiano Franci. Borghesi capaci di interrogarsi su svariati temi (commercio, produzione, linguaggio, cultura in senso lato etc.) senza accettare per principio l’autorità indiscussa di qualche istituzione. La caratteristica della rivista era certo l’intento (e la capacità di metterlo in pratica) di rinnovare il concetto di rivista fino ad allora in auge attraverso una modifica del linguaggio usato (non erudito, non pedante, vicino alla colloquialità), dell’oggetto trattato (non massimi sistemi, verrebbe da dire, ma argomenti afferenti al quotidiano, pratici, di utilizzo ed interesse diffuso), del pubblico di riferimento (non eruditi, non intellettuali aristocratici, ma professionisti, commercianti, artigiani); il tutto in vista di una nuova politica, illuminata, riformista, liberale, che stimolasse la nascente (per l’Italia) economia capitalistica.

Ecco, solo un esempio per dire che il caffè, anche nell’immaginario, è qualcosa che mette insieme ed accomuna. E si declina in molti modi, in tempi diversi. Corto, lungo, caldo, macchiato freddo, macchiato caldo, in tazza grande, in tazzina, in tazza col bordo fino, con zucchero, amaro, corretto grappa fernet vecchiaromagna bayles rum, sciacquando prima la bocca con un bichierino d’acqua quasi a preparare le papille all’idillio, sciacquando dopo per lavare i denti e avanti di questo passo. A ciascuno il suo caffè! Il segreto, però, dice Artusi, sta nella tostatura. Difficile. E nella miscela, guai a sbagliare le percentuali di arabica e libica!

E una volta che il tostatore ha tostato, il miscelatore ha misceltato e il macinatore ha macinato, ecco la regina della casa, la Moka, pronta ad essere riempita e mezza sul fuoco.

Attesa, respiro. Suono inconfondibile. Aroma. E’ ora.

Sono seduto, ti ho di fronte, un sorso via l’altro e ci guardiamo negli occhi. Nell’aria il profumo buono, la tazza calda a contatto con la mano, e il lento sapore che si diffonde in bocca. Penso che è come si dice debba essere: il caffè va preso seguendo le tre S: seduto, scottante, sorseggiando. Anche soli, se è il caso. Ma con te è meglio. Un sorso via l’altro. E’ l’inestricabile segreto di un caffè.

Perchè non vieni su da me,

saremo soli io e te,

ti posso offrire un caffè,

in fondo che male c’è.

Ma cosa hai messo nel caffè

che ho bevuto su da te?

C’è qualche cosa di diverso

adesso in me;

se c’è un veleno morirò,

ma sarà dolce accanto a te

perchè l’amore che non c’era

adesso c’è.

[Riccardo Del Turco]

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Distanza

15 martedì Apr 2014

Posted by filosofo79 in Dizionario etimologico del disamore

≈ 1 Commento

Tag

Antonio Plebe, Cohen, Distanza, Freud, Hallelujah, Heidegger, Leopardi, Montale, Narciso

Distanza [di-stàn-za] s.f. (pl. –ze)

Man manu ca passunu li jonna
sta frevi mi trasi ‘nda ll’ossa
‘ccu tuttu ca fora c’è ‘a guerra
mi sentu stranizza d’amuri… l’amuri
e quannu t’ancontru ‘nda strata
mi veni ‘na scossa ‘ndo cori
‘ccu tuttu ca fora si mori

na’ mori stranizza d’amuri… l’amuri.

[Franco Battiato – Stranizza d’amuri]

La distanza è la casa dell’amore. La tecnologia contemporanea ci ha sfrattato da questa casa. Noi siamo connessi, in modo quasi patologico, a tutti. E tutti controlliamo, leggiamo, cerchiamo, vagliamo, sappiamo. Ecco, noi sappiamo di tutto di tutti; riusciamo a vivere una situazione di prossimità aumentata, ma ci rimane estranea la parte intima, quella inesprimibile in termini di pubblicità, quella che vive di un’altra forma di condivisione che non sia quella di contenuti superficiali e im-mediatamente passati, con uno scrollare di dita.

Perché oggi la lontananza non è più lontana. E’ prossima, transitabile, persino domestica. E’ infatti nelle case, sul monitor del computer, sul display dei cellulari, nel suono che giunge agli auricolari. La tecnica del nostro tempo, la tecnica oggi trionfante,  è infatti la tecnica del lontano. L’avverbio greco t ē l e  -lontano– che compare già  nei primi  poeti greci, va a comporre gli elementi e gli strumenti della tecnica contemporanea. Telefono, televisione, telematica. Tutto quel che è lontano –isole, deserti, città, avvenimenti, paesaggi, costumi di ignote popolazioni- viene oggi verso di noi, bruciando il tempo e lo spazio della lontananza. Si fa contemporaneo. Si fa superficie, schermo, suono.  Diventa il qui e ora offerto allo sguardo, all’ascolto. (…) E’ la nostra epoca. Con  la ricchezza e l’ambiguità delle sue forme, dei suoi modi di rappresentazione. Non si tratta di opporre alla tecnica della lontananza l’arte della lontananza. Si tratta solo di mostrare come compito del linguaggio –anche del linguaggio che è proprio della tecnica-  è non ridurre lo spessore della lontananza, la ricchezza delle sue varianti, la profondità delle sue figure, i territori incommensurabili del suo spazio.[1]

Non c’è più tempo e modo per le letture e, sopra ogni cosa, le riletture. La lettera era la chiave di casa. Lo è stata per secoli. Con la lettera c’era l’adesione nel tempo e nello spazio alla distanza. Tempo dedicato a scrivere. Dedicato ad imbucare. A pensare al tragitto, alla lettura dell’altro. Tempo dedicato all’attesa di una risposta. La distanza così veniva percorsa e ripercorsa. Fatta propria. Misurata.

La distanza è la casa dell’amore, misurata a battiti e respiri. Durata.

Foto di Alessia Trentin

Foto di Alessia Trentin

Solo nella distanza si può essere intimi. Il che non vuol essere un incoraggiamento alla separazione, tutt’altro. Piuttosto, un invito alla riflessione sul distacco, come motore della crescita personale, della maturazione; la maturazione è un viaggio, un itinerario dell’anima verso l’Altro.

Senza distanza non ci sarebbero i volti amati. A chi ci volgeremmo, infatti, se non fossimo lontani? Dove cercherebbero i nostri occhi, se non in quell’altrove in cui continuamente speriamo di trovare riposo e che non è mai presso di noi? Tu sei là, sei laggiù, sei dove sei e non passi mai. Io sono quaggiù, da qui mi dispongo a te, mi apro alla tua venuta su un passaggio comune. Felici, noi, di aver provato la sensazione di sapere dell’altro al primo sguardo, di sentire dell’altro emozioni anche in assenza di parola. La distanza permette il riconoscimento.

Montale, in una sua poesia famosa , parla di una distanza che divide, quella del ricordo, anzi, del passato che non può tornare; è vero, il passato ha un che di irrimediabile; ma nel nostro ricordo noi interveniamo già sul passato, lo modifichiamo, lo trasformiamo, quindi, in altro. A volte emergono immagini, colori, suoni, profumi dal profondo pozzo della nostra memoria; è quella che Leopardi chiama ricordanza (La sera del dì di festa), ciò che permette in fondo di rielaborare il tempo fugace che ac-cade, in durata, in vita vissuta. Freud, nei casi di nevrosi isteriche e nevrosi ossessive, passa da una teoria della seduzione come trauma infantile reale, ad una nuova teoria per la quale non è necessario – e, anzi, non accade quasi mai – che il ricordo si riferisca ad eventi effettivamente accaduti. Intende dire che avviene una rielaborazione della realtà, che la fantasia opera a creare un evento e, dunque, il suo ricordo. Così è: all’amore non interessa il dato di fatto, la cosa in sè, il significato del sapere. All’amore interessa ciò che slitta, ciò che salta e che in questa continua distrazione procede verso il proprio destino.

Caravaggio, Narciso

Caravaggio, Narciso

Se vogliamo, il mito di Narciso ci dice questo. Non è possibile azzerare la distanza; pena la morte. Del desiderio. C’è nella distanza, qualche cosa che ha a che fare con il sacro, e che ne mantiene lo stesso doppio registro di ciò che è relativo al divino e bandito.

Diciamo ancora che la distanza di cui qua si parla permette di superare la separazione, la scissione; nella sua apertura al gioco con l’Altro, al gioco dell’Altro, suggerisce altre vie rispetto al sentiero della luce e al sentiero dell’ombra. Permette di lasciare il senso comune che, è Heidegger a parlare, “vede nell’ombra solo mancanza di luce, per non dire la sua negazione”. Nel gioco di chiarore ed oscurità, nella trama di luci, la distanza lascia che qualcosa sia visibile e, contemporaneamente, ci rimandi indietro la luce, rifletta. La distanza lascia che la voce risuoni, si spenga, e si prenda anche tempo per diffondersi come eco. Nella distanza vedo e sono visto, ascolto e sono ascoltato, so e sono saputo. Solo dall’azione congiunta (non necessariamente sincronica) di questi momenti, solo dal loro lavoro solidale, dalla loro comunione in diverse direzioni, posso trovare il senso della mia esistenza, la mia verità.

Maybe there’s a God above

But all I’ve ever learned from love

Was how to shoot somebody who outdrew ya

And it’s not a cry that you hear at night

It’s not somebody who’s seen the light

It’s a cold and it’s a broken Hallelujah

[Leonard Cohen, Hallelujah]

[1] Antonio Prete, Trattato della lontananza, Bollati Boringhieri, Torino 2008.

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Viaggio

11 venerdì Apr 2014

Posted by filosofo79 in Dizionario etimologico del disamore

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Tag

Baudelaire, Dante, Enea, Freud, Montaigne, Odissea, Omero, Paolo Conte, Ulisse, Viaggio, Virgilio

Viaggio [vi-àg-gio] s.m. (pl. -gi)

E il mio maestro mi insegnò

Com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire

Franco Battiato

Una persona mi ha suggerito di parlare di alcune parole, tra cui: viaggio. La scelgo perché è la migliore scelta dopo aver parlato dell’occhio.  Perché? Perché per capire il viaggio occorre partire da un’idea di luogo, di territorialità visibile, e occorre avere una esperienza del tempo. Spazio e tempo sono intimamente chiamati in causa dal movimento – fisico o metaforico – che si realizza nel viaggio. E solo chi vede la terra emersa solca il mare. Anche Colombo, che vedeva il mondo nella sua mente già planetaria e ci credeva. Ecco il punto. Vedere per avere fede e dunque muoversi. Il viaggio è sempre prospettico. Ed è, in più, capace di far mutare prospettiva al viaggiatore che viaggia, grazie all’impatto prodotto da ciò che vede quando lo vede.

Il significato di viaggio come ancora noi oggi lo intendiamo è affare medievale, come epoca, e provenzale, come luogo. E’ il viatges. Ciò da cui viatges – e quindi viaggio – deriva, è il latino viaticus e viaticum, che significano rispettivamente che riguarda la via e provvista per chi si mette in cammino.

Il viaggio implica sia il percorso, sia la dotazione. Implica un luogo e un cuore buono, forte, ristorato.

Testa di Ulisse_SperlongaChe il significante così come noi lo manteniamo sia emerso nel Medioevo non è casuale o, per restare in ambito, peregrino. Non per tornare sempre agli stessi temi – anche se sarebbe bizzarro non ri-volgersi assiduamente ai canoni della nostra cultura letteraria – ma è evidente la differenza tra il viaggio dell’Ulisse omerico e quello dell’Ulisse dantesco. Nell’Odissea (nome che poi è diventato epitome dell’idea di viaggio periglioso, lungo, avventuroso e in cui predomina la componente delle peripezie, di qualcosa che ci accade di imprevisto) è Ulisse a raccontare, su invito di Alcinoo re dei Feaci e attraverso una analessi, cosa lo ha portato a perdersi per mare.

Ma tu la storia de’ miei guai domandi,

Perch’io rinnovi ed inacerbi il duolo.

Qual pria dirò, qual poi, qual nell’estremo

Racconto serberò delle sventure,

Che gravi e molte m’invïaro i numi? [Odissea, Libro nono]

Sono i numi a decidere del destino di Ulisse, sia negli anni, lunghi, della lontananza da casa (presso Calipso, Polifemo, i Feaci, Circe), sia nel momento dell’agognato ritorno. E lo stesso Virgilio dice di Enea (Canto l’armi e l’eroe, che primo dai lidi di Troia, profugo per fato, giunse in Italia alle spiagge di Lavinio, vessato alquanto attraverso terre e in aperto mare da ira divina).

Mentre nel canto XXVI della Commedia è Ulisse a decidere di muoversi da Circe verso Occidente ma misi me per l’alto mare aperto sol con un legno e con quella compagna  picciola da la qual non fui diserto. Ulisse sceglie, decide, anche se la decisione si rivela, poi fatale. Che tuttavia il viaggio sia fatale, dipende dalla morale di Dante, dalla personale esperienza della seduzione della gloria terrena rispetto alla salvezza celeste; che il viaggio sia scelta indivduale, invece, è rivoluzione tutta medioevale, cambio di paradigma culturale che, senza tuttavia mai dimenticare la lettura religiosa del viaggio (il pellegrino), porterà, attraverso la figura protocapitalistica del mercante, al viaggiatore/esploratore dell’Umanesimo/Rinascimento e al viaggio di formazione (Grand Tour) proprio dei giovani aristorcratici europei a partire dal XVII secolo.

Ed è di questo viaggio che noi sempre parliamo, a volte per ciò che davvero è: movimento tra due punti; altre volte colorandolo, caricandolo di significati altri, metaforici.

Intendere l’amore come un viaggio sta da questa parte, naturalmente. Ma non è così distante dal significato originario; spesso, poi, in entrambi i casi capita che il punto di partenza e di arrivo siano il medesimo. Si parte spesso per fare ritorno a casa. E si ama per michel-eyquem-de-montaigneritornare a sé.

Anche se in fondo quello che troviamo, paradossalmente, non siamo quello che lasciammo.

Dice Michel de Montaigne:

A chi mi domanda ragione dei miei viaggi, solitamente rispondo che so bene quel che fuggo, ma non quello che cerco.

A cui fa eco Baudelaire, nel poemo Il viaggio:

Ma i veri viaggiatori partono per partire;

 cuori leggeri, s´allontanano come palloni,

 al loro destino mai cercano di sfuggire,

 e, senza sapere perché, sempre dicono: Andiamo!

I loro desideri hanno la forma delle nuvole,

 e, come un coscritto sogna il cannone,

 sognano voluttà vaste, ignote, mutevoli

 di cui lo spirito umano non conosce il nome!

Il viaggio e l’amore sono esperienze irrinunciabili dell’esistenza, nonostante – sembra dire Baudelaire – il resto sia sempre una delusione (Che amara conoscenza si ricava dai viaggi! / Oggi e ieri e domani e sempre il mondo / monotono e meschino ci mostra quel che siamo: / un’isola d’orrore in un mare di noia).

E così forse è davvero se nel viaggio non si rischia del proprio.

Freud non smetteva di raccomandare ai suoi pazienti di seguire la regola aurea di un’analisi: dire tutto ciò che passa per la testa; la cosa più facile a dirsi, la più difficile a farsi, la sola a condurre positivamente in porto il viaggio verso la scoperta di Sé, verso la verità che siamo. Altrimenti non di viaggio si tratta, ma di una innocua pausa, di una gita che di-verte ma non con-verte.

si si d’inverno è meglio
dopo è più facile dormire e andare
oltre i pensieri con un libro di Lucrezio
aperto tra le dita
così è la vita
tra una vestaglia e un mare
chi vuole andare in gita
non sa non sa non sa

[Paolo Conte – La donna d’inverno]

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Occhio

09 mercoledì Apr 2014

Posted by filosofo79 in Dizionario etimologico del disamore

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Tag

Amleto, Argo, Camus, Cecità, Medusa, Occhio, Perseo, Saramago

Occhio [òc-chio] s.m. (pl. -chi)

Occhio non vede, cuore non duole

Proverbio

Dal momento in cui una speranza anche infima

diventò possibile per la popolazione, il regno

effettivo della peste era finito.

A. Camus – La peste

Sarà perchè ho iniziato a perdere la vista all’età di cinque anni e da quel momento non ho più smesso che il tema della vista mi interessa. Per me l’occhio non vuole solo la sua parte, sconfina anche nelle parti altrui. Indaga, scruta, radiografa, seduce, mente. E soprattutto legge.

cecitàC’è un romanzo dell’autore portoghese Josè Saramago che si intitola Cecità. Parla di una cecità bianca che inizia a prendere piano piano gli abitanti di una città non identificata. Una simile cecità ac-cade, cade addosso alle persone; è una malattia improvvisa, una sorta di peste, un male inaspettato, un evento insomma, nel significato più radicale che si possa pensare. E, si capisce, sconvolge ognuno dei malati, alcuni atterrendoli, altri spaventandoli, altri, addirittura, incuriosendoli. Spingendo ciascuno a confrontarsi con qualcosa che in cuor suo si agita magmoso e che ha a che fare, pare, con il senso di giustizia; vuoi una giustizia trascendentale o diviina (che tutto vede: cosa ho fatto di male per meritarmi questo?), vuoi con una personale (è la punizione per essermi trascurato, travisato), vuoi con quella umana (il rapporto tra malati e autorità politico-militare che reclude per salvaguardare: invisibili).

La riflessione non si ferma tuttavia a questo aspetto, essendo anche il suo negativo a suscitare un dubbio capitale. Che non siano cioè già da sempre gli esseri umani «ciechi, che, pur vedendo, non vedono». Interessante è inoltre un’altra suggestione: non nominare le cose equivale ad allontanarne la realtà, nonostante appaiano, sia visibili. Come se l’elemento estraneo, lo straniero, l’Altro, arrivasse a sconvolgere o addirittura distruggere lo stato di cose presente, per certi versi stabile, acquisito e l’unica soluzione (vana, naturalmente) fosse scotomizzarlo[1].

L’idea di un misterioso virus, di un morbo, di un non chiarito agente patogeno è utile alla causa, inscrive i fatti in una narrazione che ha a che fare con la non prevedibilità, l’estraneità e, quindi, esula alla fine l’accaduto dall’ambito insidioso della colpa e della responsabilità. Cecità è un romanzo sull’indifferenza, sul non vedere/non guardare. Ma non dei ciechi. O meglio, dei ciechi ma solo come ingrandimento, operato al microscopio dello straniamento, della condizione normale. Già da sempre l’uomo non accoglie l’arrivo dell’Altro, sembra dire Saramago; e io mi accodo.

E Amleto (Atto IV, Scena 4) su questo ci sta innanzi da secoli:

Che cos’è mai un uomo
se del suo tempo non sa far altr’uso
che per mangiare e dormire? Una bestia.
Colui che ci ha dotati di una mente
sì vasta da vedere il prima e il dopo,
non ci largì questa capacità,
ed il divino don della ragione,
perché ammuffisca senz’essere usata.

In più, l’assenza di ogni riferimento alla cecità come ad una punizione generalizzata e riferita al comportamento degli abitanti della innominata città, fa pensare che non si tratti affatto di punizione, ma di richiamo. La cecità è bianca perchè il bianco si lascia colorare. Questo colore è il modo in cui ciascuno può (vorrei dire: deve) rispondere a quel richiamo. La responsabilità è la chiave di volta dell’edificio costituito da ogni incontro. Nell’epoca un po’ frettolosamente definita dell’immagine (come se, per fare un esempio, l’Imago medioevale fosse nulla), l’occhio può avere ancora buon gioco se si riconosce nell’Altro, se non si limita cioè ad essere una cavità (come l’etimologia vorrebbe suggerire), nè un semplice organon.

perseo e la medusaIl mio occhio cerca riposo. Su questa cosa costruisco le mie giornate. A tratti mi riesce, è una sensazione buona. Altre volte cado, sbatto, perdo, mi abbaglio di fronte alle code del pavone, su cui stanno secondo il mito i cento occhi di Argo Panoptes (che tutto vede), infelice custode della ninfa Io; Argo che nonostante avesse cento occhi, non seppe scoprire chi si celava sotto le sembianze di una giovenca e morì sedotto dal suono di Ermes, a convalida del fatto che alla vita non bastano gli occhi rivolti all’esterno, che controllano, verificano, delimitano. Il rischio è di trovarci, senza l’astuzia di Perseo, a fronteggiare la Gorgone Medusa.

E diventare pietra. Di scandalo.

[1] In ambito psicoanalitico, la scotomizzazione è l’atto della negazione inconscia di un evento o di un ricordo, ritenuto doloroso. In ambito medico-oculistico, inviece, per scotoma si intende una area di cecità che si presenta come macchia scura. Che la cecità proposta da Saramago sia invece bianca è senza dubbio uno degli elementi più interessanti e simbolici del romanzo.

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Cravatta

07 lunedì Apr 2014

Posted by filosofo79 in Dizionario etimologico del disamore

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cravatta, Disamore, Lord Brummell, Nodo Windsor, Nuvoletti, Wilde

Cravatta [cra-vàt-ta] ant., tosc. corvatta, ant. crovatta s.f. (pl. –te)

Una cravatta ben annodata è il primo passo serio nella vita

Oscar Wilde

Oggi tocca ad una parola dura, che rimanda all’ambito militare. Se ne viene dal francese cravate = croato (hrvat),  perchè una striscia di tessuto annodata attorno al collo faceva parte dell’abbigliamento dei cavalieri mercenari croati di Luigi XIII indossato durante la guerra dei Trent’anni (1618-1648). I Francesi (o forse più le Francesi) se ne innamorarono.

Mi ricordo che ne I Robinson (The Cosby Show), una delle serie tv che ho amato e (ri)guardato di più nella mia vita, Cliff si lamentava di ricevere spesso come regalo per la festa del papà dai figli cravatte che non c’entravano alcunché coi suoi vestiti. Ed è così. La cravatta giace, forse da sempre, nell’immaginario come la boa di salvataggio nella tempesta che una ricorrenza crea a chi deve fare un regalo.

Enodo windsorppure, la cravatta è molto di più. Personalmente, al mattino, quando il fuori mi attrae poco, la cravatta mi mette pace, mi dà slancio. Mi piace pensare sia dovuto al fatto che, senza troppa fatica,voce cuore e pancia sono collegati. Scegliere la cravatta, scegliere quella giusta, è qualcosa di personalissimo. Un gesto il cui significato trascende il semplice orpellame. Che sia o meno, come diceva Wilde, il primo, è certo che di passo serio si tratta. O, forse, si trattava.

Giovanni Nuvoletti nel suo opuscolo Elogio della cravatta, si esprimeva così:

E allora, ancora evviva a questo cappio ribelle, effimero nodo, velleitario capestro, nappa vanagloriosa, giulebbosa fibula, femmineo lezio, albagioso arcifànfano, reliqua aristocratica, relitto borghese, rottame ottocentesco, muliebre residuato di un maschio vestire. La cravatta è morta, viva la cravatta!

Il mondo va verso il casual. Verso la comodità. Forse, un po’, verso il disincanto. Sembrano davvero distanti i tempi in cui esisteva dietro l’atto dell’abbigliarsi in genere e dell’annodare la cravatta in particolare, un rituale, come ben descrive Tomasi di Lampedusa:

Era il momento di avvolgersi attorno al collo il monumentale cravattone di raso nero. Operazione difficile, durante la quale i pensieri politici erano sospesi. Un giro, due giri, tre giri. Le grosse dita delicate componevano le pieghe, spianavano gli sbuffi, appuntavano sulla seta la testina di Medusa con gli occhi di rubino.

La cravatta ha perso gran parte dell’attrattiva e del significato sociale che aveva; non è un caso che il primo rivoluzionario cinese del Novecento, Sun Yat-sen, sia intervenuto proprio cassando giacca e cravatta. Una bella cravatta, tuttavia, ben fatta, del giusto tessuto, è un oggetto d’abbigliamento piacevolissimo da guardare, composto e che costringe a stare composti.
Racchiude il significato di eleganza maschile, pur non esaurendolo. Porta all’estremo la superiorità del bello sull’utile, e per questo oggigiorno trova sempre meno araldi. Non c’è niente di peggio di un uomo con la cravatta allargata, con un nodo approssimativo, fatta di simil-seta, mezza acrilica mezza carta pesta. La cravatta dice di un uomo molto proprio grazieal suo tessuto, allo stile e al nodo scelto, tra gli 85 possibili[1]. Windsor, Double, Simple, all’italiana, Onassis o Pratt, ognuno fa la sua scelta; certo, non siamo Lord Brummell, ma si deve difLord Brummelfidare di chi non accosta bene il tipo di camicia (e di collo) al tipo di cravatta (e di nodo). E’ come non curarsi del corteggiamento o del bacio e puntare dritti a quel sodo verso cui, in effetti, la cravatta sembra sospingere l’occhio. Ma senza il nodo giusto, si rischia di mirare storto.

Ditemi che ho sbagliato una battuta, ma non una cravatta [David Niven]

Ed è così che va tra le persone: adesso che i nodi sono visti come cappi, mentre scemano il gusto e l’eleganza, sale il disimpegno. La cravatta costringe l’uomo ad impegnarsi in una scelta, come accade nell’amore. Ed è in questo territorio, quello della scelta e non del “poter fare tutto”, che si apre l’infinita libertà dell’uomo.

[1] Se vi interessa, qui (http://uz.sns.it/~giove/files/cravatte.pdf) trovate una trattazione matematica circa l’estetica dei nodi della cravatta.

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Conforto

03 giovedì Apr 2014

Posted by filosofo79 in Dizionario etimologico del disamore

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conforto

Conforto[con-fòr-to] s.m. (pl. -ti)

Hai sentito anche tu molti dire

che la terra è nuda, che il cielo è terso

ma che verso sera s’imbruna?

Che la vita, dura, è tempo perso

se si guarda al distrarsi della luna?

Tanto ella occhieggia come allietata

dalle umane vicende degli umani

e in questo è come i cani

fedeli alla casa, alla propria staccionata.

Io ti ho voluto dire

che le anime avverse, vittime di contese

sono mattonelle stese

messe ad asciugare e dopo a fare muro

tra il mondo e le nostre cose

e queste mettere al sicuro.

Se penso a questo

penso alla paura che ti manchi il mondo

un giorno, da sotto i piedi

e cadendo oltre la terra senza fondo

tu finisca dove è quello che non vedi.

Per questo scrivo:

per tenere tutto unito.

E quello che hai sentito

è il filo di chi teme

perché è rinchiuso, vivo,

nel labirinto di ciò che viene insieme.

 

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Bivio

02 mercoledì Apr 2014

Posted by filosofo79 in Dizionario etimologico del disamore

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Tag

Bergson, Bivio, Durata, Giordano Bruno, Le ombre delle idee, Topolino

Bivio [bì-vio] s.m. (pl. -vi)

Sì, J’accuse, leggo ancora Topolino. Per il mio 32mo compleanno (un paio d’anni fa, insomma) mi sono anche fatto regalare l’abbonamento. Cosa c’entra con l’amore? Beh, mi verrebbe da dire che se un cavallo (Horace Horsecollar) ama una mucca (Clarabelle Cow) c’è più amore e comprensione in Topolino che in tutte le cartine dei Baci Perugina.

concina02Ma il discorso è un altro. Nella seconda metà dei rampanti anni ’80, mentre Madonna era impegnata a far capire cosa provi una donna ad essere toccata per la prima volta e Doc Emmett Brown stava facendo volare una DeLorean da un capo all’altro del secolo, io leggevo avidamente Topolino. Mi ci perdevo, lo adoravo. Non sono mai stato un Marvelista e, all’epoca, i Manga non erano pane quotidiano. Al più, mi alternavo con Tex Willer, Za-gor-te-nay, Mister No e Akim (la bruttissima copia di Tarzan). Ci davo di Bonelli, insomma; in spiaggia, sotto l’ombrellone, inviso a un tempo sia al sole che alla sabbia.

In quegli anni (precisamente nel 1985 e per me i migliori albi di Topolino sono quelli dall’’84 al ’90) fu creata proprio da un Italiano – il compianto Bruno Concina – la cosiddetta “storia a bivi”. E’ un’avventura che presentaal lettore alcune scelte (il bivio, appunto) da compiere per portare avanti la storia e per farla finire in un modo o in un altro.

“Se pensi che X debba fare y, vai a pag. Z, altrimenti, gira pagina!”

Magnifico. Ed era tutto lì, in mano mia. L’ansia e la curiosità, la sorpresa e la delusione, la possibilità di tornare indietro e dare una svolta diversa.

Certo, fuori da Topolino la cosa è diversa. Cavalli e mucche non s’amano e una volta presa una decisione è ben difficile poter tornare indietro e vedere cosa sarebbe successo se. Però il sentimento del dubbio, il palpito al cuore di fronte al bivio, quello è rimasto. Di fronte alle due strade cui il nome rimanda, spesso prende l’esitazione e non c’è niente come questa sensazione che mi faccia comprendere cosa intendesse Bergson parlando di durata e non di tempo:

Se voglio prepararmi un bicchiere d’acqua zuccherata, c’è poco da fare, debbo attendere che lo zucchero si sciolga. Questo piccolo fatto è gravido di insegnamenti. Perché il tempo che debbo attendere non è più quel tempo matematico che si applicherebbe altrettanto bene all’intera storia del mondo materiale, anche qualora fosse dispiegato immediatamente nello spazio. Esso coincide con la mia impazienza, ovvero con una certa porzione della mia durata stessa, che non è allungabile o accorciabile a piacere. Non è più del pensato, è del vissuto. Non è più una relazione, è qualcosa di assoluto[1].

x - chromosome, y - chromosome. Image shot 2010. Exact date unknown.Il bivio è rappresentato dalla lettera Y, lettera definita pitagorica per l’importanza assunta nella scuola del filosofo greco. Isidoro di Siviglia, autore delle Etimologie (1.3.7), è chiaro:

Y litteram Pythagoras Samius ad exemplum vitae humanae primus formavit; cuius virgula subterior primam aetatem significat, incertam quippe et quae adhuc se nec vitiis nec virtutibus dedit. Bivium autem, quod superest, ab adolescentia incipit: cuius dextra pars ardua est, sed ad beatam vitam tendens: sinistra facilior, sed ad labem interitumque deducens.

Cioè: la gambetta è la prima infanzia, poi in adolescenza si arriva alla biforcazione. Una via è più larga e facile, l’altra più stretta ed ardua. Una è la via del vizio, l’altra della virtù.

Sul tema, Giordano Bruno scrisse in apertura di uno dei suoi capolavori filosofici (De umbris idearum, Le ombre delle idee):

Nel luogo più alto è posto

     Il volto di Diana a Chio:

      Triste appare a chi entra nel tempio,

      Lieto a chi esce

E la lettera di Pitagora

      Distinta dal segno bicorne

      Dona ottimo fine

      A quanti mostrò il torvo aspetto del destro sentiero

Delle ombre, da profonda

      Tenebra emerse

      Adesso più duri, infini graditi

      Ti saranno volto e lettera.

Chiaro il messaggio, forse un po’ meno quale sia il vizio e quale la virtù cui le strade portano. Ma questa è faccenda alla quale ognuno può dare la propria risposta, affinché la scelta rischiari la lettera.

La vita non è davvero sempre complicata, solo che a volte ci viene più facile sedere a tavolino a ricavare le trasformazioni di Lorentz piuttosto che metterci allo specchio e dire: sì, amo.

[1] Henri Bergason, L’evoluzione creatrice, Rizzoli, Milano 2012

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Copertinario # 1

02 mercoledì Apr 2014

Posted by filosofo79 in interim

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bella idea!!!

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