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~ io, me e l'Altro: dove il silenzio è talvolta rotto da Alberto Trentin

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Finché notte non ci separi di Eva Clesis – Recensione

15 domenica Mar 2015

Posted by filosofo79 in Legenda

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Bergson, Dante, Eva Clesis, Finché notte non ci separi

CAM00588Finché notte non ci separi

Romanzo di Eva Clesis

Lite Editions 2014 – 172 pp.

Con Finché notte non ci separi Eva Clesis ci regala un noir sapientemente costruito ad incastri spaziali e temporali, ambientando le vicende principalmente, come il titolo suggerisce, in una lunga notte barese, scura, piovosa, fredda e, in certo modo, spettrale. La storia ruota attorno ad un ristrettissimo numero di protagonisti, lasciando il resto dell’umanità sullo sfondo, quasi disinteressati ed occasionali spettatori.

Clesis ha una scrittura efficace, chirurgica, invitante. Riesce a delineare almeno un paio di bei personaggi, il Dottor Ranieri su tutti, forse anche perché è quello di cui l’autrice si permette di indagare più a fondo le dinamiche di pensiero, gli intralci emotivi, le relazioni famigliari. E’ forse l’unico personaggio vivo di una storia in cui vita e morte sembrano appiattirsi sullo stesso piano di indolente casualità.

Non è un romanzo nel quale sia messa a tema la riflessione sull’eterno scontro tra Bene e Male; né, credo, a Clesis interessasse particolarmente mostrare l’oscurità che si cela dentro ad alcuni, dietro a rassicuranti maschere sorridenti, abbronzate, ben delineate, lisce come biondi capelli e lunghi. Troppo facile voler riconoscere questo nella figura di Dante, la cui personalissima discesa nella selva oscura del dolore è poco approfondita e sviscerata per arrivare a mostrarsi come oggetto di analisi e, quindi, motivo di scrittura. Piuttosto, è la accidentalità che sembra interessare. Non già la banalità di un male che in queste pagine discende in pieno dalla lucida e premeditata responsabilità umana; quanto appunto il modo occasionale che hanno le cose di accadere e che sembrano spesso mancarsi per un attimo, un istante, un contrattempo, una deviazione opportuna della carreggiata, una buca, un inciampo, una distrazione.

Clesis ci mostra la lunghezza bergsoniana di una notte scandendo le vite dei suoi personaggi a colpi di cose che capitano a caso e che non rendono la storia razionale, né ragionevole. Questa notte barese mostra una disarmante solitudine che accomuna tutti, legati che siano da relazioni figliali, fraterne, matrimoniali, lavorative, economiche, sessuali.

Da leggere assolutamente, passando benevolmente sopra all’una unica nota stonata: i refusi nel testo.

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PaRenzi Serpenti. Male, bene e i nuovi tribuni della plebe.

19 venerdì Set 2014

Posted by filosofo79 in Vizi e virtù

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Affabulazione, Conte Ugolino, Dante, Jean-Baptiste Carpeaux, Matteo Renzi, Pier Paolo Pasolini

Ahi Pisa, vituperio de le genti

del bel paese là dove ‘l sì suona,

poi che i vicini a te punir son lenti,

muovasi la Capraia e la Gorgona,

e faccian siepe ad Arno in su la foce,

sì ch’elli annieghi in te ogne persona!

Che se ’l conte Ugolino aveva voce

d’aver tradita te de le castella,

non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.

Innocenti facea l’età novella,

novella Tebe, Uguiccione e ’l Brigata

e li altri due che ’l canto suso appella.

[Inferno, XXXIII, 79-90]

E’ Dante che scrive, nel canto XXXIII dell’Inferno, e rende per sempre nota la storia del Conte Ugolino, divenuto famoso da quel momento come colui che mangiò i propri figli, rinchiusi com’erano tutti nella torre della Muda a Pisa. Fama impossibile da provare e che nacque più per l’interpretazione data ad un verso di Dante, volutamente ambiguo, come notava Borges (Poscia, più che ’l dolor, poté ‘l digiuno), che per reali avvenimenti.

DA000826-1530-03_mCiò che importa a noi oggi che non rinchiudiamo più alcun colpevole in una torre lasciandolo morire di fame è tuttavia ben altro: l’invettiva furente di Dante nei confronti di Pisa, che si macchia di una colpa imperdonabile: far ricadere le colpe di un padre sui figli di costui. Un caso di cronaca, diremmo oggi, che serve a Dante per parlare di massimi sistemi (anche a costo di piegare ciò che è realemnte accaduto alla sua necessità poetica): la mancata distinzione tra colpevoli ed innocenti o meglio la loro confusione. Un tema questo naturalmente vivo nel’animo dell’esule Dante il quale, per sottolineare l’orrore sia della storia in sè del conte Ugolino sia della barbarie insita nel tema generale, paragona la città di Pisa a Tebe, nella cui Storia si annoverano fatti e genti uniti dal denominatore comune della crudeltà.

Ripeto, a Dante non interessa seguire e riportare fedelmente la storia. Poco importa che il vero Ugolino della Gherardesca sia stato imprigionato con i figli e i nipoti (quindi non solo con i figli) e che solo uno dei quattro fosse adolescente (non tutti). Ciò che importa è che l’arcivescovo Ruggieri decise di punire, assieme all’unico colpevole, anche quattro innocenti (per l’età novella) e che a causa di questo si ribaltasse l’ordine delle generazioni.

E’ pur vero che le conseguenze di un azione di un uomo possono (e spesso così accade) ricadere sui figli; ma non la responsabilità (innanzitutto morale e poi anche penale, come dice la nostra costituzione – Articolo 27) che rimane sempre in carico a chi ha agito. Una cosa che sembra essere ciclicamente a rischio di sbiadire dalle coscienze, soprattutto quando le piazze vestono da tribunali e spopolano i tribuni, ciarlando da ogni cantone a portata di click.

Scrisse Pasolini (Affabulazione): Ci sono delle epoche nel mondo in cui i padri degenerano/ e se uccidono i loro figli/ compiono dei regicidi.

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Aforisma

30 lunedì Giu 2014

Posted by filosofo79 in Dizionario etimologico del disamore

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Aforisma, Anamnesi, Baci Perugina, Dante, Diotima, Menone, O insensata cura de' mortali, Platone

Aforisma [a-fo-rì-sma] s.m. (pl. -smi)

O insensata cura de’ mortali,

quanto son difettivi silogismi

quei che ti fanno in basso batter l’ali!

Chi dietro a iura, e chi ad amforismi

sen giva, e chi seguendo sacerdozio,

e chi regnar per forza o per sofismi,

e chi rubare, e chi civil negozio,

chi nel diletto de la carne involto

s’affaticava e chi si dava a l’ozio,

quando, da tutte queste cose sciolto,

con Beatrice m’era suso in cielo

cotanto gloriosamente accolto.

[Dante, Par., XI, 1-12]

Io lo so, va così: ci affascinano cose del tipo:

Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce.

Ci affascinano perchè è proprio roba buona. Innegabilmente. La leggi o la senti dire e pensi: ecco! È proprio così! Immagina: stai ore ascoltando una compilation di spotify intitolata “In the arms of a woman”, o “Endless love” o cose così e ti sembra di non poter uscire mai più nella vita da questo tunnel costruito da brokenhearts, da honey, da babe, da cry, sommerso nel miele che sgorga dalle casse ed incapace di trarne sostentamento e forza, con movimenti sempre più lenti a causa della melassa che ti appiccica e dello struggimento che ti fiacca. E chiuso nella tua cameretta, un tempo asilo di giovanili rivolte, covo di amici altrettanto brufolosi ed olezzanti, ed ora invece tempio di uno sfinente male di vivere ecco, d’improvviso, una voce inaspettata di un augure venuto da chissà dove dice:

Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce.

E tutto si fa chiaro. Limpido. Cristallino. Ecco la causa del mio male, pensi, ecco da dove viene tutto questo e, soprattutto, ecco perchè dopo anni di Clash riesco ad ascoltare Ramazzotti.

Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce.

Va così, perchè quella frase, ripeto, è roba buona. E tu corri al pc e su google la digiti per capire chi cavolo sia l’autore capace di concentrare tanta verità in così poche parole; mezza riga in grado di svelare ore di incompreso patimento.

Pascal.

E poco conta che tu non l’abbia mai sentito prima o che il suo nome ricordi vagamente quello di uno che qualche professore al liceo aveva nominato, e che era tipo un prete che scommetteva o cose del genere. Conta poco perchè:

Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce.

E basta. Non serve altro. Non c’è da capire, l’amore. C’è solo da viverlo, c’è solo da “esisterlo”. E se qualcuno ti guarda come ad un decerebrato, se le tue azioni sembrano regolate dal getto dei dadi di un epilettico, se i tuoi genitori chiamano preoccupati una lontana zia, suora, o un cugino di secondo grado, medico, tu te ne fai gaudenti beffe ed anzi riservi loro lo sguardo di pacata commiserazione che meritano – gli ignavi – perchè non sanno che

Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce.

Frasi simili vincono,  lo ripeto, perchè sono tutte roba buona e in quanto tali subiscono il medesimo destino, quello di essere citate a destra e a manca.

A sproposito.

Questo perchè si trattano certe frasi come se fossero nate in se stesse concluse, slegate da un contesto; in altre parole i trattano come un aforisma (o aforismo), quando invece sono, più correttamente, “citazione”. Dire che la frase di Pascal è un aforisma, sarebbe come dire che lo è: “C’era una volta un principe che voleva sposare una principessa, ma doveva essere una vera principessa”.[1]

Come si fa a capire se una frase è citata a sproposito? Due sono le strade comunemente praticate dallo zelante studioso:

baci1)      Si verifica se è finita nel foglietto interno dei baci perugina;

2)      Si va a leggere la frase nel contesto da cui è stata estrapolata.

Nel nostro esempio, anche a costo di rigettarci su spotify, Pascal stava parlando dell’unico amore di cui gli premesse dire qualcosa, quello riservato a Dio, e che accade naturalmente, senza necessità di ragionamento[2].

Innamorarsi è un evento che ci cade addosso perchè l’essere umano è sempre alla ricerca di qualcosa, e lo fa immerso nel paradosso di chi cerca: se sapessi cos’è, l’avrei, ma non so cos’è e dunque come lo riconoscerò?

diotimaL’innamoramento accade. E’ quello che pende dalle labbra di Diotima nel Simposio di Platone e precede l’irrompere distruttivo, ebbro ed aberrante di Alcibiade il bello. Diotima configura Eros come un daimon, un essere intermedio tra un Dio e l’Uomo, un essere figlio di Poros e Penia, Ingegno (Abbondanza) e Povertà, un essere non sapiente e non ignorante, simbolo della corretta opinione la quale non è scienza, perchè chi la professa non è in grado di darne ragione, ma neppure ignoranza perché s’imbatte in ciò che è.

Platone, altrove, dice delle opinioni corrette che sono pericolose per due motivi: perchè dipendono sempre dagli altri, cioè da chi possiede la verità e può dunque decidere il valore di correttezza di tali opinioni; e perchè tendono a volare via, se non vengono legate strettamente.

Anche le opinioni vere, finché permangono, sono una bella ricchezza, capace di realizzare tutto il bene possibile; solo che non acconsentono a rimanere per lungo tempo, e fuggono via dall’anima umana, per cui non hanno un gran significato, a meno che non s’incatenino con un ragionamento fondato sulla causalità. Ma proprio in questo, compagno Menone, consiste l’anamnesis, quella reminiscenza su cui sopra ci siamo accordati. Se collegate, esse dapprima divengono epistemai e, quindi, cognizioni stabili. Ecco perché la scienza vale più dell’opinione corretta: la differenza tra episteme e opinione corretta sta, appunto, nel collegamento. (Menone, 98a)

Ecco, prendere l’innamoramento per amore è come prendere un aforisma per citazione. E’ come basarsi su un’opinione corretta, priva di collegamento. Si rischia di avere una bella ricchezza, che non è destinata a rimanere perchè non si èin grado di capire quello che viene detto. L’amore, d’altronde, è una storia in cui ogni cosa trova sostanza e fondamento.

[1] Hans Christian Andersen, La principessa sul pisello

[2]«Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce: lo vediamo in mille cose. Io affermo che il cuore ama naturalmente l’essere universale, e se stesso naturalmente, secondo se si volge verso l’uno o verso l’altro, o se si indurisce contro l’uno o contro l’altro, a propria scelta. Avete respinto l’uno e conservato l’altro: amate voi stessi per ragione?

È il cuore che sente Dio, e non la ragione. Ecco che cos’è la fede: Dio sensibile al cuore, e non alla ragione.

La fede è un dono di Dio: non pensiate che diciamo che è un dono del ragionamento. Le altre religioni non dicono questo della loro fede: offrivano, per arrivarci, soltanto il ragionamento, il quale però non ci conduce.

Quanta lontananza c’è tra conoscere Dio e amarlo!», Pascal, Pensieri

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Viaggio

11 venerdì Apr 2014

Posted by filosofo79 in Dizionario etimologico del disamore

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Baudelaire, Dante, Enea, Freud, Montaigne, Odissea, Omero, Paolo Conte, Ulisse, Viaggio, Virgilio

Viaggio [vi-àg-gio] s.m. (pl. -gi)

E il mio maestro mi insegnò

Com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire

Franco Battiato

Una persona mi ha suggerito di parlare di alcune parole, tra cui: viaggio. La scelgo perché è la migliore scelta dopo aver parlato dell’occhio.  Perché? Perché per capire il viaggio occorre partire da un’idea di luogo, di territorialità visibile, e occorre avere una esperienza del tempo. Spazio e tempo sono intimamente chiamati in causa dal movimento – fisico o metaforico – che si realizza nel viaggio. E solo chi vede la terra emersa solca il mare. Anche Colombo, che vedeva il mondo nella sua mente già planetaria e ci credeva. Ecco il punto. Vedere per avere fede e dunque muoversi. Il viaggio è sempre prospettico. Ed è, in più, capace di far mutare prospettiva al viaggiatore che viaggia, grazie all’impatto prodotto da ciò che vede quando lo vede.

Il significato di viaggio come ancora noi oggi lo intendiamo è affare medievale, come epoca, e provenzale, come luogo. E’ il viatges. Ciò da cui viatges – e quindi viaggio – deriva, è il latino viaticus e viaticum, che significano rispettivamente che riguarda la via e provvista per chi si mette in cammino.

Il viaggio implica sia il percorso, sia la dotazione. Implica un luogo e un cuore buono, forte, ristorato.

Testa di Ulisse_SperlongaChe il significante così come noi lo manteniamo sia emerso nel Medioevo non è casuale o, per restare in ambito, peregrino. Non per tornare sempre agli stessi temi – anche se sarebbe bizzarro non ri-volgersi assiduamente ai canoni della nostra cultura letteraria – ma è evidente la differenza tra il viaggio dell’Ulisse omerico e quello dell’Ulisse dantesco. Nell’Odissea (nome che poi è diventato epitome dell’idea di viaggio periglioso, lungo, avventuroso e in cui predomina la componente delle peripezie, di qualcosa che ci accade di imprevisto) è Ulisse a raccontare, su invito di Alcinoo re dei Feaci e attraverso una analessi, cosa lo ha portato a perdersi per mare.

Ma tu la storia de’ miei guai domandi,

Perch’io rinnovi ed inacerbi il duolo.

Qual pria dirò, qual poi, qual nell’estremo

Racconto serberò delle sventure,

Che gravi e molte m’invïaro i numi? [Odissea, Libro nono]

Sono i numi a decidere del destino di Ulisse, sia negli anni, lunghi, della lontananza da casa (presso Calipso, Polifemo, i Feaci, Circe), sia nel momento dell’agognato ritorno. E lo stesso Virgilio dice di Enea (Canto l’armi e l’eroe, che primo dai lidi di Troia, profugo per fato, giunse in Italia alle spiagge di Lavinio, vessato alquanto attraverso terre e in aperto mare da ira divina).

Mentre nel canto XXVI della Commedia è Ulisse a decidere di muoversi da Circe verso Occidente ma misi me per l’alto mare aperto sol con un legno e con quella compagna  picciola da la qual non fui diserto. Ulisse sceglie, decide, anche se la decisione si rivela, poi fatale. Che tuttavia il viaggio sia fatale, dipende dalla morale di Dante, dalla personale esperienza della seduzione della gloria terrena rispetto alla salvezza celeste; che il viaggio sia scelta indivduale, invece, è rivoluzione tutta medioevale, cambio di paradigma culturale che, senza tuttavia mai dimenticare la lettura religiosa del viaggio (il pellegrino), porterà, attraverso la figura protocapitalistica del mercante, al viaggiatore/esploratore dell’Umanesimo/Rinascimento e al viaggio di formazione (Grand Tour) proprio dei giovani aristorcratici europei a partire dal XVII secolo.

Ed è di questo viaggio che noi sempre parliamo, a volte per ciò che davvero è: movimento tra due punti; altre volte colorandolo, caricandolo di significati altri, metaforici.

Intendere l’amore come un viaggio sta da questa parte, naturalmente. Ma non è così distante dal significato originario; spesso, poi, in entrambi i casi capita che il punto di partenza e di arrivo siano il medesimo. Si parte spesso per fare ritorno a casa. E si ama per michel-eyquem-de-montaigneritornare a sé.

Anche se in fondo quello che troviamo, paradossalmente, non siamo quello che lasciammo.

Dice Michel de Montaigne:

A chi mi domanda ragione dei miei viaggi, solitamente rispondo che so bene quel che fuggo, ma non quello che cerco.

A cui fa eco Baudelaire, nel poemo Il viaggio:

Ma i veri viaggiatori partono per partire;

 cuori leggeri, s´allontanano come palloni,

 al loro destino mai cercano di sfuggire,

 e, senza sapere perché, sempre dicono: Andiamo!

I loro desideri hanno la forma delle nuvole,

 e, come un coscritto sogna il cannone,

 sognano voluttà vaste, ignote, mutevoli

 di cui lo spirito umano non conosce il nome!

Il viaggio e l’amore sono esperienze irrinunciabili dell’esistenza, nonostante – sembra dire Baudelaire – il resto sia sempre una delusione (Che amara conoscenza si ricava dai viaggi! / Oggi e ieri e domani e sempre il mondo / monotono e meschino ci mostra quel che siamo: / un’isola d’orrore in un mare di noia).

E così forse è davvero se nel viaggio non si rischia del proprio.

Freud non smetteva di raccomandare ai suoi pazienti di seguire la regola aurea di un’analisi: dire tutto ciò che passa per la testa; la cosa più facile a dirsi, la più difficile a farsi, la sola a condurre positivamente in porto il viaggio verso la scoperta di Sé, verso la verità che siamo. Altrimenti non di viaggio si tratta, ma di una innocua pausa, di una gita che di-verte ma non con-verte.

si si d’inverno è meglio
dopo è più facile dormire e andare
oltre i pensieri con un libro di Lucrezio
aperto tra le dita
così è la vita
tra una vestaglia e un mare
chi vuole andare in gita
non sa non sa non sa

[Paolo Conte – La donna d’inverno]

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Seduzione

25 martedì Mar 2014

Posted by filosofo79 in Dizionario etimologico del disamore

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Dante, Freud, Massimo Recalcati, Mozart, Omero, Seduzione, Ulisse

Seduzióne [se-du-zió-ne]ant. soduzióne o sodduzióne s. f. (pl. -ni)

«Mi vedrai presto, per fortificare la tua pietà con l’orrore di un cadavere e la mia morte, ben più eloquente di me, ti dirà che cosa si ama quando si ama un uomo» (Abelardo ad Eloisa)

Sopravvivono due etimologie concorrenti del termine seductio –nis; l’una, vagamente evangelica, propone secum ducere, condurre a sè; è un’etimologia propriamente errata, ma che va considerata perché presente ed operante; l’altra, non meno imbrigliata da considerazioni etiche, parla di un se(d) ducere nel senso di un togliere, separare dalla propria strada e far deviare lungo il cammino. E’ un termine che aveva inizialmente una connotazione neutra, ma che venne investito in ambito ecclesiastico di un senso negativo, che vede nello sviamento un allontanamento da quella che si considera la retta via. Notoriamente, la Divina Commedia è il racconto del percorso di salvezza dallo smarrimento di Dante, smarrimento dovuto proprio ad una seduzione terrena, topicamente personificata dalla donna: la donna gentile di Dante in contrasto con la salvifica Beatrice che è a sua volta donna di seduzione, capace di far compiere al poeta una nuova, stavolta positiva, deviazione dal cammino intrapreso.

Giovanni di Salysbury, che fu discepolo proprio di Abelardo, disse:

La logica da sola rimane esangue e sterile; essa non porta nessun frutto di pensiero se non concepisce al di là delle parole.

John William Waterhouse: Mermaid (1901)

La seduzione è una comunicazione fertile che sta al di là delle parole. Le Sirene seducono col canto, la Sfinge, Pizia, le Sibille confondono con le parole; al di là delle parole, ma presso alla Cosa, la seduzione non è pantomima di se stessa, non è mai concessione retorica, posa, meccanismo, maniera. La seduzione di cui parlo non può essere arte, tecnica, è distante anni luce da quell’insieme di algidi precetti che finiscono in sedicenti manuali di seduzione.

Secondo Omero:

«Afrodite, che ama il sorriso (…)

sciolse dal petto la fascia

ricamata, a vivi colori, dove

stanno tutti gli incanti; lì v’è

l’amore e il desiderio e l’incontro,

la seduzione, che ruba il senno ai

saggi»[1]

La seduzione esorbita dall’assennatezza, dalla saggezza. E’ un evento e come tale ac-cade, cade addosso. Non c’è una premeditazione, però c’è dolo, nel senso di illusione. Illusione e seduzione sono legate a doppia mandata. E poiché l’illusione è costitutiva dell’essere umano – direi che senza l’una non ci sarebbe l’altro, in qualche modo anche la seduzione lo è. E non c’è seduzone senza distanza.

Certo, la retta via è sicura, tranquillizzante, non ha imprevisti, la si può seguire con l’occhio fino all’orizzonte, ma due persone che procedano parallele su una loro retta non si incontrano mai, o, come insegna la geometria, solo all’infinito… Un modo per incontrarsi è deviare dalla propria retta o far deviare l’altro, dunque essere sedotti o sedurre[2].

Sono le lontananze terrene che permettono la seduzione, la deviazione, l’avvicinamento, il ritrovarsi (wiederfinden, ancora). Su un piano diverso, retorico dicevo prima, sta il seduttore, il Don Giovanni, che scambia la seduzione  con l’accumulazione, nel tentativo non già di ritrovare qualcosa di mai conosciuto, ma di ripristinare ciò che non esiste nel mondo delle cose. E’ la seduzione cattiva, quella cui fa riferimento Recalcati parlando di dittatura del Nuovo come ennesima forma del discorso del capitalista.

Direi che adesso rileggere quella frase di Abelardo porta qualcosa di nuovo ai nostri pensieri. L’urgenza contemporanea del corpo, di un corpo modellato, de-costruito, ristrutturato, soddisfatto e annientato, esaltato ed innalzato come luogo di godimento, lo riduce non già a luogo di scoperta, ma a vuoto ricettaccolo, a quel niente che l’uomo è se l’uomo è solo il suo cadavere, il suo soma, il suo portarsi addosso.

La seduzione, oltre Omero ed oltre il triste disincanto di Abelardo, porta con sè un altro tipo di saggezza, quella che canta Don Alfonso nel finale di Così fan tutte:

V’ingannai, ma fu l’inganno

Disinganno ai vostri amanti

Che più saggi ormai saranno

Che faran quel ch’io vorrò 

Freud darà un nome e volto nuovi a quell’Io che vuole la saggezza e l’azione del soggetto.

 

[1] Omero, Iliade, XIV, vv. 211-217

[2] Anteo Saraval (a cura di), La seduzione. Saggi psicoanalitici, Raffaello Cortina, Milano 1989

 

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Contaminazione

22 sabato Mar 2014

Posted by filosofo79 in Dizionario etimologico del disamore

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Cerbero, Ciacco, Contaminazione, Dante, Massimo Recalcati, Paolo e Francesca

Contaminazione [con-ta-mi-na-zió-ne] s.f. (pl. -ni)

Io sono al terzo cerchio, de la piova / etterna, maladetta, fredda e greve scrive Dante al principio del VI canto dell’Inferno. Ha appena abbandonato Paolo e Francesca e la loro pietosa storia (Al tornar de la mente, che si chiuse / dinanzi a la pietà d’i due cognati, /che di trestizia tutto mi confuse) e si appresta ad occuparsi di novi tormenti e novi tormentati.

Dopo la confessione da parte di Francesca dell’episodio d’amore fedifrago che Dante renderà famosissimo, direi emblematico, nella storia letteraria, tocca al tricipite Cerbero latrare contro i condannati del terzo cerchio, uguali loro ed il loro custode (Qual è quel cane ch’abbaiando agogna, e si racqueta poi che ‘l pasto morde, ché solo a divorarlo intende e pugna), avidamente golosi. E’ il canto di Ciacco, della sua profezia su Firenze e sul destino dei cittadini, e sugli scontri tra Bianchi e Neri. Su di lui e su tutti s’accaniscono il cane Cerbero e la pioggia greve.

Greve è esempio speciale di contaminazione linguistica, formato com’è da due termini latini che sono, addirittura, l’uno il contrario dell’altro. Gravis, e e levis, e; pesante e lieve formano questa parola, anche se poi nel significato è prevalso il senso di pesantezza, di dolore, di volgarità anche.

Così vanno le cose nel mondo. Ci si contamina e qualcosa prevale su qualcos’altro. Senza per forza sporcare, come vorrebbe l’etimologia proposta (cum tamino). Lo sporco degrada, modifica in peggio aspetto e utilizzo.

Massimo Recalcati scrive:

L’incontro d’amore non è dell’ordine dell’illusione; è piuttosto ciò che fa cadere l’illusione del bastare a se stessi, del narcisismo dell’Io e del suo sogno di indipendenza. Più che rafforzare l’immagine narcisistica dell’Io, la mette sottosopra, la scompagina, la rinnova, le impone di incontrare il proprio limite. L’incontro d’amore non avalla la nostra identità ma la turba, la obbliga a contaminarsi, a cedere su se stessa. Implica un indebolimento dell’Io, una perdita di controllo, uno smarrimento, il rischio dell’esposizione assoluta all’incognita del desiderio dell’Altro[1].

ImmagineL’amore ci esautora. E ci contamina. Non esiste più, dopo quell’incontro, la possibilità della purezza, dell’identità. La contaminazione non è un contagio e perché vi sia occorrono frontiere, appartenenze, tradizioni. Non da difendere a brutto muso, non da elevare con idolatrie carnevalesche. Da comprendere come ospiti degli ospiti che siamo, in questo passaggio meraviglioso che è l’esistenza.


[1] Massimo Recalcati, Non è più come prima. Elogio del perdono nella vita amorosa, Cortina, Milano 2014, pp. 48-49

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Rischio

21 venerdì Mar 2014

Posted by filosofo79 in Dizionario etimologico del disamore

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Circe, Dante, Dostoevskij, Il giocatore, Omero, Rischio, Ulisse

Rischio [rì-schio] ant. risco s.m. (pl. -schi)

Quando Dostoevskij scrisse Il giocatore scrisse di se stesso. Il romanzo venne consegnato in forma manoscritta al distretto di polizia  del quartiere dove abitava l’editore Stellovskij da parte di Anna Grigorievna Snitikina, allora stenografa del romanziere e che sarebbe divenuta, in seguito, moglie dello stesso. Anna dunque sapeva.

imagesCAPM1QLFDostoevskij contrappone nelle pagine del romanzo l’indole dissipatoria russa, propria della cultura contadina dei suoi compatrioti, alla natura logica e razionale dell’uomo tedesco e, metonimicamente, dell’Europa dell’Ovest, culla del capitalismo, weberiana e calvinista. Ivànovic, il protagonista, ai nostri giorni verrebbe descritto dalla nosografia come un dipendente dal gioco. Nel romanzo appare più moralisticamente l’accezione di vizioso.

Egli non può non giocare, quali che siano le motivazioni che si dà. Così come egli non può non amare Polina, arrivando per aiutarla a giocare forti somme. Eppure, all’ultimo, quando la redenzione è a portata di mano, quando assieme a questa anche la verità di Polina viene raccontata a Ivànovic da Mr Astley, il nostro sceglie di continuare per la sua strada. Nessuna redenzione. E’ sintomatico che sia un inglese a scoprire ad Ivànovic i sentimenti che Polina, da sempre, nutriva per lui e a fornirgli del denaro per la possibile sua conversione. Tra Russia ed Europa continentale, sembra che amore e denaro passino per le mani della corona, puritana ed industriale, scismatica ed imperialista.

Il rischio, lungi dall’essere connesso solo con il danno, come vorrebbero i dizionari, vive di una trama ben più complessa. Sta lì, incerto, tra la mente e il cuore, tra la disposizone soppesante del saggio, che vede ed abbraccia con gli occhi le indefinite possibilità dell’orizzonte, e quella sacrificale ed indomita del valoroso, del cuor-di-leone, del braveheart. Il rischio è proprio lì, maledetto lui e la sua progenie, in quella terra di mezzo; per questo a volte un grido muore in gola, una parola si tace, un sospiro si mozza. Per questo a volte agiamo senza freni, le mani toccano, la bocca bacia, il piede calcia. Ed in questo andirivieni, in questo capofitto, in questi testa-coda snervanti, ci verrebbe da far visitare lo stomaco ad un entomologo.

Il rischio è incerto sul da farsi, ed incerto è il suo etimo. Mille lingue se lo contendono, nessuna lo possiede perchè ci vuole coraggio ad assumersi la responsabilità di un termine senza termini, ma che ha a che fare col mare, con lo scoglio, con l’onda che si frange, si taglia. L’infinita declinazione delle cose dell’amore è la negativa dell’indefinita coerenza del caso che si presenta al giocatore. L’amore vive tra la sapienza e l’ignoranza di sè, dell’altro, dell’altro che è in sè. Ivànovic è chiamato ad una conversione, ad una scelta: egli è Ulisse, che dipartito da Circe decide se muoversi verso Occidente (come gli fa fare Dante), o tornare verso Oriente (come volle Omero). In ogni caso, colmare questo scarto, osare, è il necessario battito di ciglia del cuore.

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Le genti del bel paese là dove’l sì-lenzia

08 sabato Giu 2013

Posted by filosofo79 in Vizi e virtù

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Accademia del silenzio, Dante, Duccio Demetrio, Silenzio

Credo che ciò che distingue l’essere umano non sia il linguaggio, o non primariamente. Credo che a distinguerci sia la possibilità – la libertà anzi, nel senso civico, sociale che questo termine prende dall’eleutheria greco-ellenistica – di tacere. E se è vero questo, è vero che l’umanità è sempre più umiliata e offesa, schiava, incapace com’è di stare in silenzio, sia per l’incapacità di zittire, sia per l’impossibilità di trovare luoghi silenziosi, quieti, dove si sospenda il brusio del lavoro, delle fatiche, delle chiacchiere più o meno amene. Dove la “parola” possa, con fatica, tornare ad essere il simbolo di qualcosa che è e che, se mai si è saputo, ora si è dimenticato.

Ho trovato questo sito e l’iniziativa connessa è meritoria, bellissima. Sono felice che qualcuno l’abbia avuta. E felice che questo qualcuno sia Duccio Demetrio.

http://www.lua.it/accademiasilenzio/

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Quel borbottio endemico…

06 martedì Nov 2012

Posted by filosofo79 in Vizi e virtù

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Agostino, Dante, Giotto, Invidia, Lacan

E’ vero: occhio non vede, cuore non duole. O meglio, era vero. Oggidì non vale più. Come pensare che l’occhio non veda, in quest’età in cui niente sfugge all’occhio, umano o meccanico che sia? E quindi il cuore duole, e , dolendo, fa rumore. E’ un continuo borbottio, una lamentela sorda, una sorta di catenaccio dell’anima che non si disserra e tiene legata, quasi immobile, ogni altra facoltà. E’ il rumore di fondo della nostra società, rancoroso, continuo, persistente, incancellabile. Affolla i banconi dei bar, ogni studio televisivo, i rotocalchi, gli uffici, i confessionali; esce persino da sotto al casco asciugacapelli delle parrucchiere, dallo sfigmomanometro del dottore che, se non è avvezzo, lo confonde per un rantolo e manda il paziente a fare visite più approfondite.

Di cosa si duole, soprattutto? Dell’altrui fortuna, ricchezza o buona sorte che sia. E questo dolore che avvelena, questo stato d’animo penoso prende il nome di invidia; e mentre guardiamo i nostri simili, siamo tutti come il bambino ricordato da Sant’Agostino, lividi e col volto amareggiato. Ma come ebbe a ricordare Dante in merito agli invidiosi, vecchia fama nel mondo li chiama orbi. Dante e la saggezza popolare cui vuol riferirsi ci ricordano come alla base dell’invidia ci sia uno sguardo distorto, un veder male (in-videre), di traverso, verrebbe da dire. Da qui il malocchio, cioè la sfortuna di cui ci si crede vittime e che si vorrebbe gettare addoso agli altri. Se non fosse sfortuna, come potrebbe essere che gli altri riescano più e meglio di noi? Giotto ne dà perfetta raffigurazione (l’affresco è visibile nella Cappella degli Scrovegni, a Padova, ed appartiene alla serie dei vizi e delle virtù), facendo uscire dalla bocca della figura allegorica un serpente che si ritorce contro di lei e le punta con la lingua biforcuta gli occhi, mentre ella tiene nella mano sinistra un sacco – gli averi, la roba – e tende l’altro braccio in avanti, quasi volesse prendere ancora qualcosa. Sotto, le fiamme vive ardono. Figura apparentemente femminile e sicuramente diabolica, dunque, come corroborato dalle corna caprine. Giotto pensa alla roba, come se l’invidia fosse essenzialmente invidia di oggetti. E’ forse sempre Dante che si avvicina di più all’essenza dell’invidia, facendo dire al ravennate Guido Del Duca (Purgatorio XIV, 82-84): Fu il sangue mio d’invidia sì riarso / che se veduto avesse uomo farsi lieto, / visto m’avresti di livore sparso. L’invidioso, come ci ha insegnato secoli dopo Lacan, mal sopporta lo sguardo lieto e soddisfatto dell’altro. Non desidera ciò che l’altro ha, ma il suo averlo. Niente può saziare l’invidioso perchè solo di niente potrebbe saziarsi l’invidia.

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