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Imitazione, magritte, mimetismo, Neuroni specchio, Nietzsche, Platone, Rattigan, simulazione, The Browning version
L’arte non vale più per noi come il modo più alto in cui al verità si dà esistenza.
W. F. Hegel, Estetica, trad. It. Di Nicolao Merker
In apertura di “The Browning version”, il noto dramma di Terence Rattigan, il giovane John Taplow esegue di fronte al professore Frank Hunter, qualche imitazione del decano Andrew Crocker-Harris un insegnante di materie classiche in un college inglese per ragazzi che sta per ritirarsi dall’insegnamento (sostituito appunto da Hunter) e che gli alunni nel corso dei suoi diciotto anni di servizio hanno preso a soprannominare The Crock (che vale il nostro Babbione) o l’Himmler del primo anno. Poco dopo aver confidato ad Hunter di stimare e amare il professor Crocker-Harris, Taplow esegue un’ultima imitazione che viene vista dalla moglie di Crocker-Harris appena arrivata.
Successivamente, Taplow regala al suo professore un libro di seconda mano, la traduzione di Browning dell’Agamennone di Eschilo (da cui il titolo dell’opera di Rattigan), con una dedica in frontespizio. Il professore è commosso dal regalo e dalla dedica (God from afar looks graciously upon a gentle master), ma il suo entusiasmo viene poco dopo annullato dalla confessione della moglie che gli racconta di aver visto Taplow imitarlo.
I nomignoli al professore sono diffusi tra gli studenti e divengono il modo più condiviso di riferirsi a lui. Nel dramma, tuttavia, prima ancora di vederlo comparire in scena noi facciamo la conoscenza di Crocker-Harris per il tramite dell’imitazione che ne fa Taplow, un’imitazione che, a differenza dei nomignoli, non muove da sentimenti negativi, ma da affetto. Quando Crocker-Harris viene a conoscenza dei soprannomi, rimane ferito, certo, ma tenta di trovare giustificazioni razionali, cerca di spiegarsi; quando apprende dell’imitazione, al contrario, getta addolorato il libro sul tavolo e se ne va, si apparta, la ferita essendo d’altro genere; non l’orgoglio, ma il sentimento di aver subito un tradimento.
C’è stato un filosofo, secoli addietro, il quale ha avuto modo di ragionare attorno all’imitazione e profondamente. Spesso, ciò che se ne dice, è univocamente collegato a quelle occasioni (una, in particolare) in cui ebbe modo di denunciare l’imitazione come forma deteriore dell’essere. Il filosofo è Platone, il luogo è il X libro della Repubblica, il tema è l’arte. In sintesi, che valore può avere l’arte (sottinteso: nella scala dell’essere)? Minimo, in quanto si tratta di un’imitazione di qualcosa (il mondo fisico) che a sua volta imita (partecipa del) l’essere (le idee).
Platone non ha scritto soltanto io libro X della Repubblica, fortunatamente. Di arte e di imitazione Platone parla anche altrove: ad esempio in un altro luogo della Repubblica (libro IV, 398a) e merita leggere direttamente il passo (nella traduzione di Mario Vitali, edita da Feltrinelli):
Ciò vuol dire che se mai ci fosse un poeta dotato di sì prodigiosa abilità da essere capace di tramutarsi in mille forme e di prodursi in tutte le imitazioni possibili, e se costui, poniamo, si presentasse nella nostra città, e volesse recitare le sue composizioni, noi gli faremmo solenne riverenza, come si conviene a uomo così piacevole, meraviglioso e addirittura divino, ma gli diremmo che in mezzo a noi un essere siffatto non ci sta e non ci può stare, e, dopo avergli sparso profumi e messo bende sacre sul capo, lo spediremmo in un’altra città; quanto a noi ci rivolgeremmo a un poeta [b] più austero, a un narratore meno piacevole forse, ma certamente più utile, il quale imiterà per noi il modo di esprimersi dell’uomo onesto e imposterà la sua recitazione in base a quelle forme che abbiamo fissato come leggi all’inizio, quando abbiamo posto mano all’educazione dei nostri guerrieri.
Sottostante a questo discorso vi stanno due principi almeno: il primo afferma che il pericolo insito nell’imitazione sta nella sua capacità di trasformare l’imitatore in ciò che egli rappresenta; il secondo dice che, data per assodata la potenza affermata nel primo principio ed essendo altrettanto vero che l’imitazione va favorita dal pedagogista in quanto è inclinazione naturale del fanciullo (e, in sostanza, aiuta a diventare ciò che si è), è compito dello Stato supervisionare affinché vi sia equilibro tra rischi e benefici, attraverso la figura di un censore.
Edgar Wind nella prima delle sue conferenze radiofoniche del 1963 alla BBC, poi confluite nel volume Art and anarchy (trad. It di Rodolfo Wilcock per Adelphi) assimila tale censura (evidenziandone il carattere paradossale) all’attività del potatore che taglia per fortificare ma col rischio, andando troppo vicino alla radice, di far morire la pianta.
Taplow imita il suo gentle master sentendosi a lui legato da un sentimento positivo e volendo essere come lui. Senza questa attività il bambino come potrebbe iniziare a diventare ciò che è? Come potrebbe trovare posto nella, e conferme dalla, società in cui nasce? E’ il tema della costruzione della soggettività anche per il tramite degli altri, del rapporto con loro, in una parola è il tema dell’intersoggettività, un’idea che viene nel tempo ripresa, approfondita, scandita, riformulata. Nietzsche, al quale va concesso di aver detto chiaramente il suo pensiero sul “gregge” e dunque sul senso deteriore dell’emulazione, scrive in Aurora:
Per comprendere l’altro, cioè per imitare i suoi sentimenti in noi stessi, noi ci mettiamo in una prospettiva di imitazione interna che in qualche modo fa sorgere, fa sgorgare dei sentimenti in noi analoghi, in virtù di un’antica associazione tra movimento e sensazione.
Imitazione, questa, che Nietzsche declina appieno in quella che si può definire un’etica del carattere o descrittiva, più che un’etica della norma, e che rimanda al valore esemplare dei grandi personaggi.
L’imitazione è uno dei modi che l’uomo ha per sintonizzarsi con gli altri, una delle vie di accesso alla dimensione intersoggettiva, interindividuale che, benché non esclusiva, è certamente complementare alla dimensione della soggettività che, d’altra parte, è stata troppo spesso in ambito filosofico e cognitivistico privilegiata fino al limite di aver enucleato regole di funzionamento assoluto del nostro apparato cognitivo, finendo per delineare una realtà solipsistica, capace di formarsi quasi a prescindere dai dati esterni e dalle influenze altrui.
Vittorio Gallese scrive:
Il mimetismo caratterizza in modo pervasivo la dimensione sociale dell’esistenza umana, e lo fa a più livelli. […] è quindi uno strumento fondamentale nella costruzione del gradimento sociale. E risulta essere uno strumento importante anche nella costruzione di stereotipi cognitivi.[1]
E’, il mimetismo, una sintonizzazione che ci fa comprendere l’altro e, attraverso l’altro noi stessi. Ci si richiama spesso alla filosofia di Merleau-Ponty che nel suo Fenomenologia della percezione scrive:
La comunicazione o la comprensione dei gesti avviene attraverso la reciprocità delle mie intenzioni e dei gesti degli altri, dei miei gesti e delle mie intenzioni comprensibili nel contesto di altre persone. È come se l’intenzione dell’altro abitasse nel mio corpo e la mia nel suo.[2]
Il che non dista molto da quanto la neurobiologia ha recentemente compreso attraverso la scoperta dei cosiddetti neuroni-specchio il cui funzionamento riesce a dare conto biologicamente di fenomeni psichici già noti come la capacità di immedesimarsi nell’altro (altrimenti detta empatia) e la comprensione dell’intenzionalità di un’azione altrui. Dentro di noi accade un processo affascinante che porta a simulare involontariamente l’altro in quella che viene definita simulazione incarnata.
Non fu unica invero la stirpe delle Contese, ma sulla terra ne esistono due; […] La seconda, invece, la generò prima dell’altra la Notte tenebrosa; ed il Cronide dall’eccelso trono, che ha la sua dimora nell’etere, la pose alle radici della terra, e molto migliore per gli uomini; proprio questa suole svegliare egualmente al lavoro anche l’ozioso. Ognuno infatti sente la mancanza del lavoro, volgendo lo sguardo ad uno ricco, e quindi si affretta ad arare, ed a piantare il campo, ed a farsi bene una casa; così il vicino prende invidia del vicino che anela al benessere – buona è questa Contesa ai mortali! –, ed il vasaio gareggia col vasaio, e l’artigiano con l’artigiano; ed il mendico gareggia col mendico, e l’aedo con l’aedo.[3]
[1] Vittorio Gallese, Dai neuroni specchio alla consonanza intenzionale. Meccanismi neurofisiologici dell’intersoggettività, Rivista di Psicoanalisi, 2007, LIII, 1, 197-208
[2] Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, trad. It. Di A. Bonomi, Bompiani, Milano 2003, p. 256
[3] Esiodo, Le opere e i giorni, 11-26, trad. It. Di Aristide Colonna, U.T.E.T, Torino 1977