«Mi affaccio alla grotta e guardo»; così scrive Goffredo Parise ad un certo punto del suo resoconto dal Laos, contenuto nel volume Guerre politiche (Adelphi 2007, pp. 275). La grotta è il luogo fisico in cui Parise soggiorna nella capitale del paese ai confini di Cina e Vietnam; ma la grotta è anche quella in cui figurativamente rimane rinchiuso l’occidentale che si trovi, sperduto, a soggiornare in questo territorio e che cerchi di soddisfare la propria volontà e curiosità: di sapere certo, di capire soprattutto. Sfamato con poche informazioni, ragguagliato con scarni dettagli, sempre con l’impressione di essere accolto nella stanza del sapere solo per poter dare brevi e poco soddisfacenti occhiate, a cimeli più che a fatti e comunque solo a ciò che altri vuole sia reso palese.
Se questa è la sensazione Parise qui e altrove cerca di spingersi oltre, di scardinare, di buttare l’occhio e rubare, di spingere l’intelletto a carpire e ricostruire per riconsegnare. E di questo abbiamo testimonianza viva in questo volume che raccoglie quattro diverse esperienze di inviato in zone di guerra, zone pericolose sia per l’estremità dei luoghi, sia per la fragilità degli appoggi, sia certo per la costanza e forza delle guerre – che a volte sono guerriglie – in atto.
In zona di guerra lo sguardo è l’arma propria dello scrittore in terra straniera che deve, prima di affidarsi alla capacità affabulatrice, inventare e cioè affidarsi all’inventio per poter fare il resoconto attendibile e ad un tempo onesto che gli viene in qualche modo richiesto da casa:
Questo catalogo o itinerario dello sguardo mi fa sentire via via meno isolato e meno estraneo di prima. Mi fa sentire, diciamo così, un po’ meno condizionato dagli agi (e dalle disperazioni) della civiltà occidentale che ho abbandonato da pochi giorni e un po’ più vicino alle antiche misure naturali dell’uomo che, come tutti noi, ho abbandonato da secoli.
E uno sguardo diverso da quello esercitato dagli ospiti, soprattutto se di rango appena superiore a quello dei (tanti) poveri o (molti) poverissimi. In più luoghi del libro si leggono affermazioni di questo tenore:
Parla (scil. Sisana Sisane, un membro del comitato centrale del Laos) molto bene il francese ma preferisce parlare laotiano e comunicare attraverso Sombat, l’interprete. Ufficialità che si incontra spesso in tutti i paesi comunisti, specialmente asiatici. Di solito non si tradiscono subito come lui, chi parla lingue occidentali finge di non conoscerle (capendo invece tutto) fin dall’inizio. E intanto guardano, ascoltano e si fanno un’idea.
Una posizione difensiva, questa, che mostra molta cautela, se non totale sfiducia, verso lo straniero, l’ospite, il giornalista che vuole conoscere. In un certo senso sono due modi opposti di stare e di guardare e di parlare; per Parise il linguaggio (cercato in) comune è un traballante appoggio alla sua attiva ricerca che viaggia attraverso gli occhi; per i personaggi come Sisane è viceversa l’occhio che conferma ciò che la lingua compresa di nascosto ha già suggerito.
E tuttavia sbaglierebbe chi credesse che la forza di queste narrazioni venga dai fatti visti, dai dati acquisiti e memorizzati, dalle testimonianze ascoltate o dai segreti svelati da un capo compiacente; Parise, oltre la pragmatica di rito, ha un’indelebile fiducia nell’uomo e soprattutto nel vinto, nel povero, in chi ha ancora una cristallina tensione alla relazione umana. Per questo nei suoi racconti Parise parla molto di sé, fuggendo l’utopica oggettività di uno scribano mandato altrove a catalogare (provviste, cibi, abitudini, piante, dialetti) e rendicontare (morti, razioni, munizioni, ore, attacchi etc.) cn tassonomica e fredda maestria. Parise racconta e nel racconto traspare l’esigenza che la relazione sia scambio e preveda una reciproca apertura.
Dopo aver visto e guardato parti dell’Asia per anni successivi e sempre, come dicono gli asiatici, trop pressè, dopo aver percorso la loro terra con le mie gambe, dopo aver toccato gli alberi e il riso, dopo aver guardato i loro occhi e le loro mani e il loro modo di apparire e di sparire sia nella realtà che nel ricordo, ho imparato che, alla fine di un viaggio, non sono i “dati”, le “informazioni”, o la ragione analitica che contano, bensì sempre e soltanto il sentimento che si prova verso gli uomini e le cose che l’occasione, e ancora di più il caso, ci ha fatto incontrare. Il resto, tutto il resto, di cui scorrono vani e presuntuosissimi fiumi di inchiostro, non conta nulla. La mano sulle reni di una contadina curva al tramonto in una minuscola risaia nell’attimo in cui si leva, si deterge il sudore con l’altra mano e sorride; l’attimo di un bambino che non ha mai visto un occidentale e va dritto a sbattere contro un alberello e fa finta di niente; l’attimo in cui un vecchio vìetminh in pensione smarrisce lo sguardo calmo negli alberi in riflessioni che noi non conosceremo mai; o quello in cui una vecchia che dorme sulla sua stuoia si leva all’ap-parire dello straniero e accenna, soltanto accenna con un tocco, a riassestarsi i capelli e subito dopo intreccia le dita non sapendo fare altro che presentarsi, ormai, così, com’è; o quello in cui il perentorio e icastico commissario politico mostra la schiena curva e già vecchia e si concentra a non scivolare sulle rocce umide: tutti questi attimi, la somma di questi attimi, sono l’essenza di quel paese.
Quello che interessa a Parise in quanto scrittore, quello che lo spinge e muove i suoi passi è non già la ricerca di quella che è la verità dei fatti (politici, storici), ma la realtà di ciò che quei fatti hanno provocato nelle persone, e soprattutto, tra i molti, in quelli che sono i poveri, gli umili, lo strato povero della società che mostra dunque una realtà ed una verità di sentimenti ed emozioni che permettono di fare passi avanti nella comprensione della vita e, dunque sotto un certo rispetto, della storia. Dice altrove Parise per spiegare ciò che si instaura tra gli esseri umani – non sempre, ci mancherebbe, ma dunque prezioso proprio perché sporadico – e fonda la relazione:
Ma è necessario stabilire (se il destino lo vuole) quella non programmabile unità di misura che si chiama simpatia; e che nessuna ufficialità o burocrazia al mondo (salvo in Cina) riuscirà mai ad estirpare dal cuore degli uomini.
La notizia per lo scrittore sta là dove alberga non la finzione, il soldo, la burocrazia e la forma; bensì dove sogni e speranze continuano nonostante i lutti e le sofferenze subiti come torti, imposti come comando, accolti come destino. In fondo giace qui un’idea diversa di politica, un’idea forse che allunga le radici in altri tempi in cui il governo della cosa pubblica aveva chiaro in mente, innanzitutto, cosa fosse pubblico e cosa, anche e di più, fosse comune:
Quando uno scrittore decide di partire verso un paese sconvolto da avvenimenti politici e da azioni militari ciò che lo spinge al viaggio non è la passione polìtica o la passione militare: è la passione umana […]. Il fine è quello dì partecipare, come per una trasfusione, di quel sentimento molto più confuso, molto meno schematico, ma certamente più “eterno” che, nell’insieme delle sue componenti, domina il popolo di quel paese sconvolto e da avvenimenti politici che sono andati in un certo modo e da azioni militari che si sono concluse in un certo modo.